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Yoga Darśana

Patañjali

Testo di riferimento: Yoga Sūtra di Patañjali (tradizionalmente II sec. A.C. – probabile IV sec.)

 

Il termine deriva dalla radice sanscrita Yuj “soggiogare”, “unire”.

Soggiogamento inteso come disciplina interiore ed esteriore, ma anche unificazione. Nelle Upanişad: “controllo della mente e dei sensi”; “saldo controllo dei sensi” (Kaţha upanişad).

 

Lo Yoga costituisce l’aspetto pratico del Sāṃkhya darśana, in quanto mira alla reintegrazione dell’uomo nella sua vera essenza, che è la Realtà spirituale, attraverso un processo di “unificazione”realizzabile con la pratica di una severa “disciplina interiore”.

 

Lo Yoga classico, o “Yoga regale” (Rāja Yoga), o “Yoga che ha otto membri” (Aştāńga Yoga), è descritto negli Yoga Sūtra di Patañjali; vi si afferma che “tutto è solo dolore per chi ha discernimento”.

Patañjali afferma che è possibile annullare il “dolore futuro” sfuggendo alle catene del saṃsāra, attraverso la realizzazione di quel perfetto isolamento (kaivalya) che coincide con il raccoglimento profondo (samādhi), nel quale il soggetto cosciente fa esperienza della suprema quiete e “riposa nella sua essenza”.

 

Per giungere a questa meta occorre percorrere una via suddivisa in otto momenti, gli otto membri dello Yoga:

Yama (cinque astensioni): mansuetudine; veracità di parole pensieri, azioni; onestà; castità; povertà.

Niyama (cinque obblighi): purezza esteriore ed interiore; soddisfazione di ciò che si ha; ascesi; preghiera; dedizione totale al Signore.

Riproduzione fotografica di un'illustrazione da Yogini Sunita (b. 1941), Pranayama Yoga: The Lotus and the Rose: The Art of Relaxation, Walsall, England, 1965

 

Insieme formano la disciplina morale.

Prāṇāyāma: controllo del respiro

Pratyāhāra: ritrazione dei sensi dai loro oggetti

Dhāraṇā: concentrazione, attenzione

Samādhi: incentramento dell’attenzione, perfetto raccoglimento.

 

Nella Bhagavad- gītā vengono tra le altre cose enunciate le Tre Vie, o “triplice Yoga” (con riferimento alla dottrina della “diversificazione delle competenze”):

 

Karma- mārga: via del “rito”, come “azione perfetta”

 

Jñāna- mārga: via della conoscenza, gnosi, volta al conseguimento di una consapevolezza della natura profonda del proprio Sé attraverso il fuoco dell’ascesi e della meditazione.

 

Bhakti-mārga: via dell’amore; liberazione dall’atto rituale e superamento della stessa gnosi nella totale unione con l’Amato divino. Bhakti (dalla radice che indica “fruire”, “partecipare”) indica un rapporto esclusivo di devozione, amore e partecipazione che si instaura tra il devoto e la propria divinità di elezione, concepita come un Dio personale, che sceglie lui stesso il suo devoto, con un atto di grazia, per elevarlo a sé.

 

Yoga Sutras of Patanjali (italian)

Patanjalisutras

Fig. 4 – the state I am in, 2007.

Sicuramente un’ esperienza del genere non può di certo essere dimenticata, e rimane vivida nella mente ancor di più a 13 anni. Se originariamente le  bende erano legate a questo terribile evento, col tempo hanno assunto diversi significati. Infatti, lo stesso Nortse, in occasione della sua mostra“Nortse self portraits – the state of imbalance” tenutasi nel 2008 presso la galleria Rossi e Rossi di Londra, afferma che le persone della sua età hanno vissuto diversi cambiamenti e riforme sociali, e lui personalmente si sente come un umano porcellino d’india, sottoposto costantemente a diversi esperimenti per verificarne poi la reazione chimica. Gli “autoritratti” (uno dei quali a Fig.4) sono il risultato degli esperimenti sul porcellino d’india, intrappolato nella stretta fasciatura. L’immagine del porcellino riesce a spiegare bene il sentimento di oppressione Nortse, e in generale del popolo tibetano. Gli Autoritratti sono anche il risultato di uno sforzo da parte dell’artista, che risale al 2007, di esprimere se stesso combinando la pittura tradizionale ad olio con la fotografia, una tecnica che Nortse classifica come “ Nuova Pittura”. Lo stato di squilibrio che Nortse rappresenta nei suoi autoritratti è legato ad un malessere personale che attraverso la raffigurazione di se stesso cerca di ricostruire la sua vita intima e spirituale. Le cause di questo stato sono molteplici: il triste incidente del padre (con la presenza costante delle bende), i ricordi della Rivoluzione Culturale (Fig. 5, Father’s Violin), il periodo da alcolista, ed i cambiamenti contemporanei che avvengono in Tibet.

Fig. 5 – father’s Violin 1, 2007.

Per quanto riguarda il passato alcolista di Nortse, l’artista stesso afferma: “Un altro simbolo che spesso appare nei miei dipinti è “La Bottiglia di Vino”. Sono stato a lungo tormentato dall’eccessivo vizio del bere, ogni volta sempre di più; quando versavo in uno stato di squilibrio separato dalla realtà, ho scelto l’alcool come via di fuga, ma così facendo ho perso molto. L’Io nei miei Autoritratti esprime questo stato di squilibrio”.

Altro simbolo presente nelle sue opere è ‘la maschera’. L’uso delle maschere è anch’esso un ritorno al passato, a quel periodo di anarchia, quando ognuno per le strade indossava una maschera, un periodo che per l’artista è simile ai demoni dei suoi sogni. “Adesso quando ripenso a quel periodo, mi sembra che esso rappresenti la prova della fine del mondo, la fine del tempo”.

Oltre agli Autoritratti, ve ne sono altri, come ‘Prayer Wheel’, ‘Big Brother’ (Fig. 6-7) e ‘Auto man’ che sono rappresentazioni del conflitto tra la vecchia e la moderna cultura; altri ancora, come ‘Saved’(Fig.8) di natura più ottimistica, in cui compare una figura a mezzobusto, con gli avambracci legati, ma le mani aperte nell’atto di liberare una nuvola di farfalle. Quest’ultima opera comprende una serie di lavori che sono rappresentazioni circa la natura umana e la religione e la possibilità di una liberazione attraverso quest’ultima.

I temi da lui trattati sono importanti a Lhasa come altrove: il riscaldamento globale, il degrado ambientale, la sovrappopolazione, l’alcolismo fra i giovani (come avviene a Lhasa negli ultimi anni), il desiderio di formare una propria identità in un mondo di mass media e l’erosione della cultura e della tradizione.

Nortse è uno dei pochi artisti tibetani che lavora in ambito multimediale e la sua cultura traspare da ciò che viene raffigurato e non dallo stile utilizzato. La sua arte è infatti costituita maggiormente da lavori mixed media, sebbene includa anche lavori di fotografia, pittura ad olio e lavori come scenografo, associati al suo addestramento accademico e prima espressione artistica.

Nortse sostiene che solo mantenendo con fermezza il proprio punto di vista culturale, l’arte tibetana moderna potrà avere un futuro artistico autentico. Filo conduttore di tutte le opere di cui si è parlato, è la ricerca dell’ identità, che in diversi periodi storici si è espressa in modi diversi, ma che comunque non ha mai smesso di cercare e di affermare se stessa.

Fig. 6 – Preyer wheel, fotografia, 2007 Fig. 7 - Big brother, fotografia, 2007 Fig. 8 – Saved, 2007

Bibliografia:

Clare Harris, In the Image of Tibet. Tibetan Painting after 1959, Reaktion Books, 1999.

Sitografia:

www.mechak.org

www.rossirossi.com

www.asianart.com

Fig. 1 - Nyi ma nag po-Red sun, 2006.

(Articolo di Giuseppina Giummara)

Al giorno d’oggi i cambiamenti che avvengono nell’ambiente corrono come i pensieri e sono soprattutto gli artisti a cogliere e vivere queste trasformazioni. Se si tratta poi di artisti nati in una terra come il Tibet, che negli ultimi 50 anni ha subito profonde trasformazioni, la questione si fa ancora più complessa e ricca di sfumature. Nello specifico, l’artista di cui si parlerà è Norbu Tsering, meglio conosciuto come Nortse (in cinese羅次), nato nel 1963 a Lhasa. La data di nascita è rilevante, in quanto ci fa notare che l’artista, come tutti i suoi coetanei, ha esperienza della “Rivoluzione Culturale”(1966-1976), del periodo delle riforme, della riapertura del paese al mondo esterno negli anni ’80 e adesso vive il periodo della globalizzazione economica. Nortse a questo proposito dice “forse, potresti dire, che la nostra esperienza di vita è stata ricca, ma se potessi scegliere, io avrei piuttosto fatto a meno di questa ricchezza”: frase che rende pienamente la sua personale opinione.

Riguardo al periodo della Rivoluzione Culturale e ai suoi lasciti, nella produzione artistica di Nortse, si può far riferimento a due lavori, Black Sun e Red Sun, che indagano la possibilità o l’impossibilità che la cultura tibetana ha di riassemblare se stessa.

Al centro del Red Sun (Fig. 1), una statua originale di bronzo senza testa del Buddha (acquistata nel Barkhor), attesta la distruzione dei monasteri e delle statue nel periodo della Rivoluzione Culturale, mentre le vene rosse che spargono sangue in tutte le direzioni e le lacrime sferiche che circondano la rovina di Shakyamuni, richiamano alla memoria la storia della distruzione della vita umana e culturale. Il nome stesso dell’opera potrebbe essere un chiaro riferimento al sole rosso del comunismo cinese.

Black sun (Fig. 2) rappresenta invece, la paura per la cultura tibetana e per la rottura di quel qualcosa nel cuore della comunità che si è frantumato e non può essere più riparato. Nortse riflette sul significato dei materiali, dicendo che il sangue rosso che è stato versato si è seccato, diventando nero; la forma del Buddha è realizzata col vetro rotto e semi di orzo, una figura che delinea la sagoma di Buddha, ma che non ha più una reale consistenza.

Entrambe le opere sono realizzate con diversi materiali di fattura tibetana, ed hanno la forma di un mandala, come fossero fotografie di due fasi diverse della storia del Tibet (la scritta Tibet; Bod compare anche all’estremità superiore dell’opera). Due minuscoli piedi rossi sul foglio artigianale rappresentano il sentiero calpestato, un sentiero immerso nell’orrore per ciò che è stato. Quei piccoli piedi rossi sono orme di piedi sporchi di sangue, piedi di chi ha subito e di chi ha continuato a camminare calpestando il sangue dei fratelli. Il significato di queste orme può essere anche ricondotto alla scelta di un sentiero da seguire.

Il vissuto di un artista è quasi sempre rintracciabile nelle sue opere, e così è anche per Nortse. Egli infatti dal 1980 al 1991 studiò arte in varie scuole, inclusa la Tibet University di Lhasa, la Central Arts Academy di Beijing e le accademie d’arte di Guangzhou e Tainjing.

Fig. 2 - Nyi ma nag po-Black sun, 2006.

A questo periodo risale la sua partecipazione come uno dei membri fondatori, tra i quali vi era anche Gonkar Gyatso (Gong dKar rGya mTshos), della Sweet Tea House Artist Association di Lhasa. Quest’iniziativa cominciò a metà degli anni ‘80 da parte della prima ondata di artisti tibetani che ritornarono in Tibet dopo aver ricevuto una formazione artistica all’Accademia di Arte centrale di Pechino. L’Associazione nasceva dal bisogno degli artisti di affermare la propria identità, divisa fra un’educazione cinese e un’eredità tibetana. L’obiettivo dell’ Associazione era quello di creare un movimento nuovo per l’esperienza tibetana di arte contemporanea, distanziandosi dalle tecniche del realismo cinese. A parte le sperimentazioni estetiche e tecniche di ognuno, gli artisti della Sweet Tea House si identificarono prima di tutto come etnicamente “tibetani”. Oltre l’obiettivo primario di restaurare la “tibetaneità” degli artisti, la Sweet Tea House si legò profondamente alla natura e all’ambiente fisico, cercando di restituire anche all’ambiente la propria identità tibetana. Dal 1984-1986, gli artisti della Sweet Tea House esposero, come il nome suggerisce, nelle case da the del quartiere di Shol di Lhasa. Quando il mercato di arte di Lhasa e la vita culturale declinò nel 1987 a causa di un agitazione sociale, anche l’Associazione si sciolse. Ci furono artisti, come Gonkar Gyatso, che lasciarono il Tibet cominciando altrove una nuova carriera, mentre altri trovarono lavori nell’ambito artistico, nel design e nell’insegnamento. Quando, nell’agosto del 2003, venne fondata la Gedun Choephel Artist Guild, molti di quegli artisti contemporanei della prima ondata degli anni ‘80, come Nortse, gravitarono intorno all’Associazione e cominciarono a dipingere di nuovo per loro stessi; a volte dopo più di dieci anni di inattività. L’origine del linguaggio figurativo di Nortse è da ricercarsi proprio nel lavoro degli esordi.

A questo proposito, un’opera realizzata durante gli anni ‘80, merita di essere citata come origine dei suoi lavori. Si tratta di ‘Bound-up Scenery’ (Fig. 3), opera composta da una serie di 4 fotografie realizzate nelle praterie del Jiangtang (Chang Tang), nel Tibet occidentale. Quest’opera potrebbe essere frutto di quelle escursioni che la Sweet Tea House Artist Association realizzò in aree remote del paese, al fine di cercare nella natura, una conferma del loro spirito tradizionale. In tutte e quattro le foto, è visibile un paesaggio desolato che fa da sfondo, e un personaggio (probabilmente Nortse stesso) con due lunghe strisce di stoffa, una rossa e una bianca, che creano con il soggetto una sequenza di immagini che porta a vedere l’uomo prima seduto sulla stoffa e poi man mano fasciato fino a scomparire del tutto; come se quella fasciatura coprisse sia l’identità dell’uomo che dell’ambiente alle sue spalle. È per la prima volta che compaiono le fasce di stoffa, che poi saranno un elemento ricorrente nei lavori di Nortse. Questo elemento è collegato dall’artista stesso ad un avvenimento tragico, la morte del padre causata da un incidente stradale nel 1976. Nortse ricorda il corpo del padre interamente bendato, con il sangue rosso che emergeva nel bianco delle bende e il forte odore di formalina; “Ancora oggi tutte queste immagini appaiono costantemente nei miei sogni”.

Fig.3 – Bound-up Scenery, 1987 circa

Il Bakufu dei Minamoto

Hojo Masako

Minamoto Yoritomo scelse come sede Kamakura, stabilendovi il bakufu, o “governo della tenda”. Non tentò di infiltrarsi a corte ma attese di  consolidare il proprio potere. Ottenne diverse cariche, tra cui quelle dei sōtsuibushi (capo della polizia militare), sōshugo (capo dei governatori militari) e sōjitō (capo degli intendenti terrieri militari). Nel 1192 ottenne la carica di shōgun (generalissimo), abbreviazione di sei i tai shōgun (gran generale che sottomette i barbari). Iniziano così le dinastie degli shōgun: il potere si sposta dalle mani dei Fujiwara a quelle degli shōgun; l’autorità effettiva, il governo del paese, viene separata da quella imperiale, anche se si intenderà sempre che lo shōgun governa per delega imperiale.

La possibilità per gli imperatori di esercitare il potere effettivo, attraverso la pratica dell’insei, o ritiro dell’imperatore, scompare con l’istituzione della shogunato.

Si verificò una spartizione dei poteri tra il bakufu e la corte, la cui importanza andava sempre più riducendosi poiché non disponeva di alcun potere militare. Il bakufu istituì i propri organi di governo nelle province, che progressivamente esautorarono quelli imperiali, anche se il dualismo resistette a lungo.

L’intenzione di Yoritomo di fondare un governo militare fu chiara dal principio, poiché non cercò di infiltrarsi a corte, ma si tenne lontano da quell’ambiente che giudicava corrotto ed effeminato.

Nella sua base nel Kantō riuscì ad operare un cambiamento rivoluzionario nella struttura di governo, fondando un’autocrazia militare in opposizione a quella imperiale, che in seguito si sarebbe dovuta accontentare del semplice ruolo di dispensatrice di cariche.

I tre ministeri principali erano il Samurai-dokoro (ufficio degli affari militari), il Monchujō (ufficio investigativo), e il Mandōkoro (ufficio dei documenti pubblici), i tre presidenti di questi ministeri, con sede a Kamakura, formava la commissione consultiva che discueva i problemi civili e militari alla presenza dello shōgun.

Yoritomo chiamò al suo servizio abili amministratori, provenienti dal governo della capitale e dall’emergente classe dei samurai.

Il legame di fedeltà tra shōgun e vassallo divenne il vero fondamento della società feudale.

Alla morte di Yoritomo, che si era liberato del fratello Yoshitsune e del cugino Yoshiaka, vedendoli come rivali, scoppiò una lotta per la successione, che si risolse a favore di Hōjō Masako, vedova di Yoritomo, con l’assassinio di Sunetomo, figlio di Yoritomo, si estingueva il ramo dei Minamoto e dal quel momento gli Hōjō restarono i dominatori del Giappone per circa cento anni.

La reggenza Hōjō

Ritratto dell'imperatore Go Toba, Fujiwara no Nubuzane, 1221

Durante la reggenza Hōjō si verificò il tentativo di rivolta da parte della nobiltà (disordini Shōkyū, 1221) capeggiata dall’imperatore in ritiro Go Toba,  ma il governo riuscì a sedare i tumulti.

Fu promulgato uno dei primi codici dell’epoca feudale: il Jōei Shikimoku. Non aveva carattere di codice penale, ma era strutturato come una raccolta di casi giudiziari e sentenze emesse da bakufu. Date le mutate condizioni generali nell’organizzazione del governo centrale e delle province, il vecchio codice Taihō del 701 non risultava più attuale, quindi gli Hōjō sentirono la necessità di far redigere un nuovo corpo di leggi.

Nel 1225 un consiglio di Stato (Hyōjōshū) formalizzava la posizione dello shikken (reggente per lo shōgun) al vertice del potere esecutivo.

Lo shikken Hōjō Yasutoki riuscì a sviluppare un energico ed empirico sistema amministrativo nelle province, aumentò la stima e la fiducia dei vassalli e dei samurai nei confronti della famiglia Hōjō; si adoperò a migliorare le condizioni generali delle istituzioni senza muovere l’ago della bilancia a favore di nobili, civili o militari.

Il nuovo codice sanciva l’affermazione al potere dei feudatari e la diminuzione di quello imperiale (ad esempio, le terre non erano più proprietà imperiale ma dei feudatari; si stabiliva che nessuno potesse richiedere cariche all’imperatore senza il preventivo assenso dello shōgun).

La minaccia mongola

Il Giappone era stato in rapporto con altri paesi dell’Asia, ma in un rapporto strettamente economico e culturale. Il paese non era mai entrato a far parte dei grandi sviluppi della politica eurasiatica. Uno di questo sviluppi arrivò a coinvolgere direttamente il Giappone, l’espansione del popolo mongolo.

La prima spedizione contro il Giappone si ebbe nel 1274. Una flotta di novecento navi partì dalle coste coreane, occupò Tsushima e da qui attaccò l’isola di Kyushū. La resistenza giapponese sarebbe stata sopraffatta se un tifone non avesse disperso le navi mongole, costringendo gli avversari alla ritirata.

Una seconda spedizione fu organizzata nel 1281. I mongoli si avvalsero della collaborazione nautica e militare della Cina, che era stata conquistata. Anche questa volta un ruolo decisivo lo ebbe un tifone, che disperse l’esercito mongolo dopo cinquanta giorni di lotta.

Di fronte all’invasione da parte dello straniero i giapponesi, per secoli divisi in fazioni, ritrovarono lo spirito di solidarietà nazionale. Da questi episodi nacque anche il mito del “kamikaze” (“il vento divino”) e la credenza che il Giappone godesse della protezione divina.

La mancata invasione portò comunque conseguenze rilevanti. Le operazioni militari esaurirono le riserve finanziare del bakufu, pressato da coloro che pretendevano una ricompensa per l’apporto prestato durante la guerra (compresi i vari santuari e templi, che si conferivano il merito di aver ottenuto l’intervento divino, dando un contributo fondamentale alla buona riuscita del conflitto).

In passato c’era sempre stata una fazione vincente ed una sconfitta, così che i vincitori avevano sempre potuto giovarsi di un bottino in seguito alla vittoria. Questa volta invece, il nemico sconfitto non c’era più e non restava alcun bottino da dividere.

Nel 1294 il bakufu dichiarò di non essere disposto a concedere più nessuna ricompensa. Il malcontento iniziò a diffondersi ovunque e la fine del governo degli shikken era vicina.

Il samurai Takezaki Suenaga che fronteggia frecce e bombe mongole. Da Moko Shurai Ekotoba, XIII secolo

Fig. 11 Tender, stampe fotografiche, mixed media, 130x90x70 cm, 2002

Attento osservatore dei mezzi di comunicazione, l’artista è appassionato di design e particolari accattivanti di importanti campagne pubblicitarie.

Questi particolari spesso compaiono nelle sue sculture, contribuiscono alla creazione di quella superficie fittizia che tutti possiamo, anche inconsciamente, riconoscere a colpo d’occhio, perché appartenenti a quella cultura commerciale di massa con cui ogni abitante di una grande città viene costantemente a contatto senza neanche accorgersene. È il caso di Tender (Fig.11), dove l’uomo in posizione yoga ha tra le mani della schiuma, particolare che ricorda precisamente una campagna pubblicitaria della Dior; altro caso simile è individuabile nell’opera Miss, in cui la posa acrobatica del soggetto femminile scolpito (tra l’altro riconoscibile anch’esso perché Kwon scelse di ritrarre una giovane videoartista, Koo Dong-hee) è stata presa da una campagna pubblicitaria Diesel. Questi particolari, oltre a colpire, anche senza un intento preciso, l’osservatore, completano proprio il concetto della scelta del nome di questa serie scultorea, Deodorant type, richiamandosi anche ad una sorta di imitazione di ciò che è ‘commerciale’, che rappresenta la superficie di innumerevoli prodotti che vediamo, come messaggio subliminale che ci porta a richiamare alla memoria quello che anche senza voler vedere, vediamo comunque.

Fig. 12 Miss, stampe fotografiche, mixed media, 75x50x100cm, 2002

LA SECONDA SERIE DI OPERE: THE FLAT

La tecnica. L’evoluzione del concetto di ‘facciata’ Potemkin. La scultura nella composizione delle imagini.

Durante il lavoro sulla prima esposizione, Gwon O-sang si dedicò intensamente alla produzione di una seconda serie di opere, conclusasi nel 2003, intitolata The Flat. L’artista, dopo aver accuratamente scelto e ritagliato da riviste di moda e di design, immagini di oggetti di importanti campagne pubblicitarie, come profumi, orologi, gioielli e trucco, li fotografa nuovamente, dopo averli collocati in uno spazio tridimensionale nella posa originaria in qui i reali oggetti erano stati fotografati. Legando del sottilissimo fil di ferro alle immagini degli oggetti, le fa stare in piedi, creando una specie di minuscola impalcatura.

Fig.13 The Flat 4, Lambda print, Diasec, 120x150cm, 2003.

Vedendo la stampa finale e osservando gli oggetti in composizione, risulta molto difficile capire se si tratta di foto di oggetti o foto di immagini di oggetti. Ed è proprio qui che ci si può ricollegare all’idea di partenza, quella della serie Deodorant Type, che questa volta in The Flat, anche solo dal titolo stesso risulta più chiaro. La ‘facciata’, la superficie, ciò che si percepisce a colpo d’occhio, può essere ricollegata da un osservatore ad un contenuto. Proprio questa ricerca, volta a lavorare con estrema meticolosità sul concetto di superficie, dimostra quanto le nostre percezioni siano in realtà illusorie, e che non si tratta più di contenuto, ma soltanto di forma. Ad aiutare il riconoscimento degli oggetti ancora una volta la scelta di immagini fortemente commerciali, beni di lusso o di importanti e diffuse marche, forse per destare ancor più facilmente nel fruitore dell’opera questo senso di illusorietà della forma. Automatico sorge il richiamo alla cultura e filosofia estremo orientale, e le origini dell’artista.

Molti critici giudicano Gwon O-sang come fotografo, proprio per l’immancabile uso del mezzo fotografico nella realizzazione delle sue opere. Egli non ha mai dichiarato di potersi definire fotografo. Egli dichiara di essere nato e di essere sempre rimasto uno scultore. Se in Deodorant Type questo risulta comunque evidente, proprio per la tridimensionalità e la fisicità delle sue sculture fotografiche, in The Flat, quanta scultura ci sia non è proprio facile da stabilire. Si ha comunque a che fare con una superficie piatta (dal titolo stesso) e con delle stampe fotografiche. Una volta però afferrato il concetto di superficie, e di quanto lavoro ci sia dietro alla realizzazione di queste opere, si può allora capire quale sia il motivo che lo spinge a definirsi scultore.

Fig. 14 The Flat 1, Lambda Print, diasec, 120x150 cm 2003.

La collocazione di immagini piatte, che riproducono un oggetto tridimensionale, nello spazio fisico, considerandone la posizione, l’inclinazione, la direzione della luce e creandone uno ‘scheletro’, è di per se molto simile al lavoro dello scultore. Non è detto, e prima di tutto Deodorant Type ce lo insegna, che una stampa fotografica non possa avere la stessa fisicità di un oggetto più pesante o più grande, se posta sotto la giusta luce nella giusta ottica.

Fig.15 The Flat 10 e 12, Diasec on Lightjet print, 180x208 cm, 2004

LE OPERE PIÙ RECENTI: THE SCULPTURE.

Fig.16 The Sculpture 5, pittura su bronzo,75x210x130cm, 2005-2006.

L’ultima serie di opere realizzate da Gwon O-sang nel 2006, segna un ritorno ad un tipo di scultura tradizionale; non a caso è intitolata The Sculpture. Si tratta di riproduzioni in bronzo dipinto, a dimensioni naturali, di macchine di lusso e motociclette.

Il bronzo, può sembrare un materiale non più conforme con l’idea di ‘scultura leggera’ che ha reso Gwon pionere nella scultura fotografica. Perché allora sceglierlo?

A questa domanda egli risponde emblematicamente, non senza ragione. Il bronzo in particolare è un materiale interessante, perché lavorandolo con cura e rendendolo molto sottile può anche risultare molto leggero. Allo stesso modo l’idea di leggerezza che comunemente di attribuisce alla carta, può essere facilmente essere sfatata se si pensa a quanto può pesare un blocco di carta pressata.

Fig.17 The Sculpture 2, pittura su bronzo, 462x220x 113 cm, 2005

Fig.18 The Sculpture2 (particolare), pittura su bronzo, 462x220x113 cm, 2005.

Anche questa scelta dei materiali non è casuale, anche questa visone di sostanza e peso specifico si può facilmente ricollegare al concetto di ‘tutto non è come sembra’, e ricalca perfettamente i principi che hanno portato alla realizzazione di Deodorant Type e The Flat. Anche su cosa scolpire, l’artista  rimane fermo sulla stessa attenzione per la realtà, dimostrata anche precedentemente con le altre sue opere. Oggetti di lusso, conosciuti da un grande numero di persone, facilmente identificabili. Lo scultore non iniziò direttamente con l’idea di riprodurre un’automobile in bronzo, ma con piccoli oggetti, come penne Mont Blanc o telefoni cellulari Motorola. Dal successo nella realizzazione di questi oggetti, l’idea di riprodurre una macchina. Per Gwon Osang una macchina, o meglio, una ‘super car’, come una Lamborghini o una Ferrari, non è un semplice oggetto, ma è già di per se l’essenza della forma e della scultura. “Questi tipi di automobili, pur essendo costosissime, scomode da portare, e capaci di arrivare ad altissime velocità, anche se non ci sono luoghi urbani dove le si possono far correre, fanno impazzire i clienti”. Su questo l’artista si è interrogato a lungo. Spesso queste auto, ideate proprio sulla base del corpo umano, e che rappresentano, pur nella difficile praticabilità, un vero e proprio status symbol, un desiderio nascosto, un punto di arrivo, sono una manifestazione chiara dell’idea del bello nella società contemporanea, e lo possono anche essere nell’arte contemporanea stessa. “Se gli scultori più famosi della storia”, dice Gwon O-sang, “ fossero vissuti nella società in cui noi viviamo adesso, tutti avrebbero scolpito una ‘super car’ almeno una volta nell’arco della loro  vita”. La realizzazione di un’auto in bronzo inoltre ha una continuità con l’idea che ha portato l’artista alla realizzazione di The Flat: la dimostrazione che la realizzazione di un oggetto dalla superficie riconoscibile, seducendo l’occhio e i desideri dell’osservatore, offre spunti di riflessione sulla natura delle percezioni umane e sul senso di ‘reale’ e di contenuto. Ogni essere umano, ogni artista, per Gwon O-sang, è il prodotto della società in cui è immerso, e la ricerca di ciò che attrae, in una società in cui i media sono a loro modo creatori di verità, di mode e stili, è per lui di grande interesse.

SITI PRINCIPALI CONSULTATI:

– ARARIO GALLERY: http://osang.net/index.html (sito ufficiale della galeria, contiene immagini, e saggi e una raccolta di interviste fatte a Gwon O-sang)

– DESIGNBOOM.com

http://creativejuice.wordpress.com/2006/11/

– thinkcommon.com

Articolo di Mary Lou Emberti

NOTIZIE BIOGRAFICHE E FORMAZIONE CULTURALE

Fig. 1 A demand of the reduction composed of 300 pieces,stampe fotografiche, mixed media 172x50x60 cm,2000

Gwon O-sang nasce in Corea del Sud, nel 1974.

Completa gli studi a Seoul laureandosi in scultura presso l’università d’arte Hongik di Seoul, prendendo la specializzazione nel 2004.

Nello stesso anno, dopo aver partecipato, durante il suo corso di studi, a molte collettive di artisti in Corea e Giappone, esegue la sua prima mostra personale presso la Kukje Gallery, riuscendo ad ottenere un forte successo commerciale. Gwon O-sang fu fondatore, insieme ad altri tre artisti contemporanei, Bae Bien- U (1950-), Lee Yoon-jean (1972-) e Lee Joong-keun, del movimento “REAL REALITY”, alla fine degli anni ’90.

Il “Real Reality” segna la divisione con la cosiddetta First Generation Baby Boomers ed il gruppo 386, ovvero quella generazione di persone nate durante il boom economico sudcoreano dopo la fine  della Guerra di Corea (1950-’53) [1] che aveva condizionato profondamente lo sviluppo delle università, degli ambienti intellettuali e artistici.

Gwon O-sang ed il Real Reality fanno parte invece di quella che alcuni chiamano Second Generation Baby Boomers, per metterla a confronto con la precedente, o anche Seo Taiji Generation,[2] i quali esponenti erano nati negli anni ’70 e attivi negli anni ’90 e 2000 in modo diverso dalla generazione precedente.

Scopo delle loro attività culturale infatti, non era più quello di creare motivazioni ideologiche a sostegno di una democrazia nascente, né di manifestare contenuti politici volti a creare una nuova identità culturale fino ad allora poco documentata o assente. La nuova generazione, nata proprio in un momento di sviluppo economico già consolidatosi da un decennio aveva proprio come obiettivo quello di ritrarre la realtà proprio così come si manifestava e aprirsi anche su scala commerciale al consumo di massa. Il Real Reality e la nuova produzione artistica è solo un esempio di questo fenomeno di rinnovamento. Gli anni Novanta sono quelli della globalizzazione, dell’uso diffuso di internet e dell’apertura degli indie space, quelli della diffusione su larga scala del cinema indipendente e dell’apertura novi spazi espositivi, dove tutte le più piccole realtà letterarie, artistiche, musicali sono sintomo di una società in rapido cambiamento, non più stretta a dover rappresentare un’idea di unità in cui tutti si dovevano riconoscere, ma diversificata su vari livelli.

Per lungo tempo Gwon O-sang fu definito “artista bravo, ma poco fortunato”. In realtà con il tempo ha saputo dimostrare di essere un scultore capace, versatile e apprezzato in tutto il mondo.

Dalla sua prima esposizione personale alla Kukje Gallery e dopo aver cominciato a lavorare con la Arario Gallery ha cominciato a collezionare diversi successi anche in Europa e in Italia.

LA PRIMA ESPOSIZIONE: DEODORANT TYPE.

Scultura fotografica. Il concetto di “facciata”. La tecnica scultorea. L’attenzione per le tecniche pubblicitarie.

“L’essenza dei primi lavori era quella di realizzare sculture leggere”. (Geon O-sang)

Il 2001 consacra Gwon O-sang come artista. La sua esposizione intitolata Deodorant type, fu organizzata per la prima volta nell’ Insa Art Space di Seoul. Il nome della mostra, scelto dall’artista, fu volutamente preso in prestito da una campagna pubblicitaria di deodoranti Nivea, allora molto in voga in Corea. Soltanto il nome della mostra fu sufficiente a risvegliare l’interesse del pubblico su di lui. Per quale motivo l’artista avrebbe dovuto scegliere un nome del genere per la sua mostra di sculture?

A questa domanda egli rispose con un altro interrogativo: ‘Quale tipo di narrativa sociale propone un’industria che sponsorizza il deodorante?’

Il parallelismo con l’oggetto pubblicitario così aiutava a chiarire gli intenti di Gwon, e a definire anche uno dei concetti chiave che influenzerà anche le sue mostre successive e l’evoluzione del suo stile scultoreo: l’idea che l’illusione che ci fornisce la superficie condiziona anche il nostro concetto di contenuto. In questo modo, l’individuo percepisce e giudica la realtà in base alle proprie esperienze sensoriali, come si può fare magari sentendo l’odore di un deodorante, ma non può avere la certezza che dietro a quella si celi lo stesso contenuto che in base alle percezioni ci si può aspettare, come un deodorante che è di per se fatto per ‘coprire’ altri odori o per profumare un ambiente.

La sua estetica è stata spesso paragonata ai giardini Potemkin, leggendari villaggi in cartapesta fatti realizzare alla fine del ‘700 (con tanto di figuranti assunti allo scopo) dal principe Gregory Potemkin per impressionare la regina Caterina II di Russia sullo stato di sviluppo ed efficienza dei territori sottratti all’Impero Ottomano.

Fig. 2 A demand of proof, stampe fotografiche, 15x16x20 cm, 1998

Fig. 3 A Tenacious Report on Power, stampe fotografiche, 15x5x30 cm,1999

La sua idea era quella di poter creare delle sculture, completamente fatte di assemblaggi di singole stampe fotografiche, vuote all’interno o con scheletri scultorei realizzati con materiali come fil di ferro o carta pressata, e quindi anche molto leggere e facilmente trasportabili, che ritraessero soggetti iperrealisti, come volti, figure umane o oggetti, nella più completa tridimensionalità.

Le prime opere A demand of proof (fig. 2), la serie intitolata A tenacious report on power (fig. 3), realizzate tra il 1998 e il 1999 erano molto delicate, facili a danneggiarsi perché completamente vuote all’interno e di piccole dimensioni. Unbearable Heaviness (fig. 4) è i primo suo, ironico lavoro, in cui fu inserita un’anima di poliuretano per dare solidità e resistenza alla scultura.

Fig. 4 Unbearable Heaviness, stampe fotografiche e interno in poliuretano. 120x100x40 cm, 1999

Con il passare del tempo ed il raffinarsi sia delle tecniche che delle stesse stampe fotografiche, l’artista è riuscito a creare delle opere molto più resistenti e di dimensioni molto più grandi.

Fig. 5 Lavorazione delle sculture, dallo scatto fotografico in studio alla realizzazione dello scheletro scultoreo

I suoi modelli vengono fotografati nei più piccoli particolari in uno studio, tutti con la stessa sorgente di luce. In un secondo momento, un volta sviluppate le pellicole, le stampe vengono unite a formare il corpo scultoreo, che l’artista realizza e personalizza senza più guardare modelli originali. Anche le pose dei soggetti sono più plastiche e mobili. A seguito di questa sviluppata tecnica di realizzazione e alla visibile evoluzione della progettazione, diventa più chiaro ora capire quanto l’artista sia interessato alla realtà che lo circonda, al cosiddetto still-life e che il suo intento sia quello di ritrarla.

Le sue opere riproducono con estrema meticolosità (fin nei più piccoli particolari) scene di vita, espressioni, oggetti riconoscibili in qualsiasi situazione ci troviamo. Anche una valigia (A traveler’s suitcase, fig.6), un furgone (Difference composed of 1800 pieces for Error C-prints, fig.7), una persona scivolata a terra (On the languishment of 340 pieces, fig.8), o sacchi pieni di rifiuti diventano oggetto della sua attenzione.

Fig.7. Difference composed of 1800 pieces for Error C-prints, stampe fotografiche,320x190x140 cm ,2001

Fig. 6 A Traveler’s suitcase, stampe fotografiche, 2000

I titoli stessi sono solo un indizio; l’artista stesso dichiara di non poter dare un nome significativo alle sue opere, ma preferisce dar loro dei titoli ‘anonimi’ , perché queste non sono pensate per una univoca situazione, preferendo cambiare di volta in volta l’effetto delle opere a seconda di come vengono posizionate tra loro nello spazio espositivo.

Fig. 8 On the languishment of 340 pieces, stampe fotografiche, mixed media, 200x65x30, 2000

Interessante inoltre è, nelle sue sculture fotografiche più recenti, la ricerca del ‘duplicato’ (fig.9-10), e delle proporzioni corporee sperimentando rimpicciolimenti o ingrandimenti delle dimensioni delle stampe fotografiche. In questo modo, si possono creare realtà parallele, grottesche o anche ironiche, semplicemente utilizzando copie degli stessi scatti fotografici e posizionandole come a creare una copia tridimensionale.

Nella sua accuratezza nel creare figure a dimensioni naturali di scene comuni della vita di ognuno, lo scultore non risparmia nemmeno una fortissima attenzione per i particolari.

Fig. 9 Action Sampler, stampe fotografiche, mixed media 185x60x50 cm, 2004

Fig.10 A statement of entangled 480 pieces 180x60x50 cm, 2001

NOTE

[1] Rinomato esponente di questa generazione di intellettuali fu il gruppo 386 (anni ’90).

Il nome 386 si riferiva al primo computer moderno introdotto nel mercato su scala commerciale, il 3:86, segno del cambiamento dei tempi, e ogni singolo numero stava a sintetizzare ed identificare le caratteristiche degli esponenti. Il 3 indicava l’età anagrafica (attuale agli anni ’90), i trent’anni; il numero 8 stava a significare che questi avevano frequentato negli anni ’80 l’università, luogo cruciale per la nascita dei moti di protesta e delle prime lotte per la democratizzazione, e quindi denotava il loro forte impegno intellettuale; il 6 descriveva l’anno di nascita, gli anni ’60. La produzione letteraria ed artistica degli esponenti del 386 sottolinea particolarmente questo fortissimo impegno etico dei suoi esponenti, sia sul piano letterario che artistico, volto al recupero dell’identità culturale della nazione coreana.

[2 ] Seo Tai-ji era il cantante di un famoso gruppo rock, molto in voga negli anni Novanta, chiamato “Seo Taiji and Boys”. La seconda generazione si è spesso identificata con questo gruppo musicale perché il cantante della band diventò famoso per aver combinato diverse varietà di stili e generi musicali (punk, ska, heavy metal, hip hop), precedentemente quasi sconosciuti sulla scena musicale coreana.

Le prime forme di organizzazione statale in territorio cinese sarebbero verosimilmente comparse  tra la fine del III e gli inizi del II millennio a.C., nel contesto delle culture Longshan. E’ il periodo in cui la tradizione scritta colloca la prima delle “tre dinastie ereditarie” Sandai: Xia, Shang e Zhou, che si sarebbero succedute al governo della Cina nell’arco di circa due millenni, dal XXII al III secolo a.C.

Sima Qian, detail, ink and colour on silk; in the National Palace Museum, Taipei.

E’ opportuno ricordare che quando si parla di “tradizione scritta” ci si riferisce a un complesso di testi, di carattere storico, filosofico, letterario ecc,  che, nella loro attuale redazione risalgono per lo più al periodo degli Stati Combattenti (453-222 a.C. ) e alla dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.)

In generale, il complesso delle notizie tramandate dalla tradizione sui periodi più remoti della storia cinese sono frutto di un’opera di selezione e di filtraggio; anche se esistono –ad esempio- tutta una serie di dati relativi alla dinastia Shang trasmessici dal più grande storico di epoca Han, Sima Qian (c.a. 145-90 d.C.), nel suo monumentale Shiji (Memorie di uno storico), che sono stati sostanzialmente confermati dalla ricerca archeologica.

Non fu solo l’intervento della  la scuola confuciana nel periodo degli Stati Combattenti, caratterizzato dalla tendenza ad integrare i documenti più antichi in un complesso organico e coerente con le esigenze dottrinali della scuola, ad operare nei confronti di tali documenti una sostanziale revisione storica; ma un altro apporto determinante al processo di “rilettura” del passato si ebbe anche dai teorici dell’Impero Han, per i quali il richiamo alla “tradizione” costituiva il criterio fondamentale di legittimazione del nuovo assetto politico e sociale. E’ proprio in questo periodo che le teorie della “successione dinastica” e del “mandato celeste” ebbero una formulazione definitiva nell’ambito di una più generale concezione etica e cosmologica che spiegava e giustificava l’esistenza di un Impero universale.

Il problema che si pone di fronte allo storico è quello di raccogliere e dare un’organizzazione coerente dei dati, all’interno della tradizione scritta, passati indenni attraverso l’opera di filtraggio di cui si è detto, sulla base delle ipotesi confortate dai ritrovamenti archeologici.

Già a partire dal tardo periodo Shang (XIII – XI secolo a.C.) si riscontra l’esistenza di numerosi documenti epigrafici coevi.

Il problema della rielaborazione storiografica è particolarmente evidente rispetto ai dati concernenti le origini dell’Impero cinese. È il caso ad esempio dello Shujing (Classico dei documenti), raccolta di testi storici la cui selezione è attribuita secondo la tradizione a Confucio, in cui vengono posti agli inizi della storia, prima delle Tre Dinastie, i due saggi sovrani Yao e Shun. Sima Qian, nel suo Shiji, elenca complessivamente cinque sovrani predinastici, i cinque di (con riferimento ai cinque elementi e alle concezioni cosmologiche di epoca Han): Huangdi, Zhuanxu, Ku, Yao e Shun; a cui si aggiungono altri tre sovrani predinastici, i tre huang: Fuxi, Nüwa e Shennong, secondo alcune fonti; Tianhuang, Dihuang e Taihuang secondo Sima Qian.

Fuxi e Nuwa

Nonostante numerose varianti nella loro composizione interna, le due serie dei cinque di e dei tre huang sarebbero rimaste sempre collegate, nella   storiografia cinese tradizionale, con un’antica “età dell’oro”, in cui sarebbe stato fissato il modello di governo ideale, e in cui sarebbero state realizzate le “scoperte” e le “invenzioni” fondamentali della civiltà umana.

Rispetto al periodo delle Tre Dinastie il problema si fa più complesso. La storicità della dinastia Shang è stata da tempo confermata dagli scavi archeologici, e vi sono oggi motivi fondati per attribuire caratteri storici alla dinastia Xia. Se per i sovrani predi nastici e in generale per l’epoca delle origini la ricostruzione del passato operata dalla tradizione scritta era consistita essenzialmente nella rielaborazione di materiale mitologico, per le Tre Dinastie si ha invece una sistematizzazione basata sulla selezione di materiale propriamente storico nell’ambito però di una visione etica e filosofica, che identificava la civiltà cinese con un “polo” di autorità legittima circondata dalla barbarie.

È probabile invece che la nascita dello Stato in Cina abbia presentato un carattere “multipolare”, e che nell’ambito di tale processo, le Tre Dinastie si siano poste come principali momenti di aggregazione; in cui si configuravano delle fasi alternanti di conflitto e di supremazia di una di esse sulle altre. Dati storici e materiale mitologico sembrerebbero confermare questa ipotesi: nello Shiji e in iscrizioni oracolari coeve compaiono nomi di sovrani appartenenti alle diversi rami dinastici (o che comunque sembrano avere a che fare con un determinato centro di potere), parallelamente ad altre (è il caso del rapporto tra i centri di potere Zhou e Shang).

La prima data certa della storia cinese, registrata nello Shiji di Sima Qian, è l’ 841 a.C., anno di inizio del periodo Gonghe della dinastia Zhou.

Iscrizioni oracolari su gusci di tartaruga, epoca Shang

Sono due le cronologie tradizionali più importanti. La prima è la cronologia lunga – detta anche “ortodossa” – che pone la conquista della capitale Shang da parte dei Zhou nel 1122 a.C.; la seconda è la cronologia breve, che fa risalire l’evento al 1027 a.C. la cronologia lunga si fonda su calcoli astronomici, probabilmente erronei, effettuati dal filosofo e letterato Liu Xin (c.a. 32 a.C. – 23 d.C.). La cronologia breve deriva dai Zhushu jinian (Annali su bambù), una cronaca del V-IV secolo a.C. rinvenuta in una tomba nel 281  d.C.; del testo originario di quest’opera, tuttavia, non sono rimasti che dei frammenti, e non si è del tutto certi dell’autenticità del passo su cui si basa la cronologia. È comunque possibile ricavare dai due sistemi cronologici le seguenti datazioni per le Tre Dinastie (le date tra parentesi sono quelle della cronologia breve):

Dinastia Xia : 2205 – 1751 (1194 -1523) a.C.

Dinastia Shang: 1751 – 1122 (1523 – 1027) a.C.

Dinastia Zhou: 1122 – 222 (1027 – 222) a.C.

[Testo di riferimento: M.Sabattini, P. Santangelo – Storia della Cina, ed. Laterza 2004]

"Untitled" 2007

(Articolo di Priscilla Inzerilli)

L’opera di Anish Kapoor è in grado di attivare i mandala interiori, da tempo rimasti “inceppati” a causa di un certo tipo di fruizione dell’arte, come pure di una riflessione su di essa che troppo spesso si risolve in un’aporia, in “omaggio” e in funzione della presenza – quasi prepotente – della personalità dell’artista, così come di un voluto “non senso” (con il quale non si rischia né la critica né la lode) che respinge ogni tentativo di riflessione.

Affermare, come ha fatto lui stesso, che le sue opere non siano affatto autobiografiche, è dire una mezza verità. Indiano di nascita e britannico di “adozione”, di padre hindu e madre ebrea irachena, Anish Kapoor appare quasi come il “modello” delle proprie opere, una linea di confine tra un insieme di riferimenti culturali e di significati diversi, presenti allo stesso momento, su cui ognuno può riflettere e proporre la propria interpretazione (significativo ed emblematico, in questo senso, il fatto che alle orecchie occidentali il nome di Kapoor suonasse come femminile, dando così l’avvio a quel meccanismo di “equivoci” interpretativi che si estenderà poi alle sue opere, e su cui l’artista amerà giocare e riflettere).

D’altra parte lo ha confessato lui stesso, in occasione dell’esposizione alla Royal Academy di Londra (2009): La mia scultura? Tutta colpa di Freud.

“ Nulla è privo di significato psicologico, indagare è compito dell’arte”.[1]

Solo che non si tratta di una “psicanalisi” individuale, ma collettiva.

Legge Jung e si appassiona alle macchine celibi di Marcel Duchamp; conosce colui che diverrà il suo maestro Paul Neàgu e produce una serie di installazioni volte a indagare i temi portanti nel suo percorso artistico: l’androgino, ovvero la dicotomia femminile-maschile, la sessualità, il rito […] [2]

È proprio dal modello junghiano della psicologia degli “archetipi” che emerge la riflessione più interessante sull’opera di Kapoor.

L’artista non crea oggetti. L’artista crea mitologie”. [3]

Che cos’è una mitologia? Una mitologia è un significato, o una serie di significati, profondamente radicati in noi, nel nostro inconscio. “Io non ho nulla da dire”, afferma spesso Kapoor. Il che non va tradotto con “il mio lavoro, le mie opere, non hanno nulla da dire”; ma significa precisamente che è lui a non avere nulla da dire, perché gli archetipi parlano da sé, e l’inconscio non può che rispondere, risuonando con essi. Significa precisamente che non vi è un messaggio prestabilito, una funzione didascalica dell’opera, ma che l’opera stessa è un processo di costruzione di senso.

Sono mitologie arcaiche, quelle proposte, che vanno via via raffinandosi nel tempo fino a raggiungere tematiche dal sapore quasi puramente metafisico; a partire dall’uso del pigmento puro (la serie 1000 Names), passando per l’indagine delle possibilità della pietra grezza e della materia “plastica” (Adam, Void field, Ghost, Svayambh), fino ad arrivare a quegli specchi, che non ci restituiscono affatto la realtà come ci aspetteremmo (Turning the World Inside Out, S-Curve, Alba, Double mirror).

"Vertigo", 2008

Alcune “mitologie” sono facilmente riconoscibili (seppure difficilmente “interpretabili” di primo acchito): agli occhi di uno spettatore occidentale, provvisto di una minima conoscenza della propria cultura religiosa cristiana, un’opera come The healing of St. Thomas non ha quasi bisogno di spiegazioni. La presenza della fessura che dovrebbe squarciare il velo del dubbio, permettendo la fede, la certezza della “visione”, ci riporta in realtà ad un’ulteriore dimensione di mistero e smarrimento.

"Adam", 1989

Sempre nell’ambito della cultura occidentale, Origin du monde appare come un’ironica citazione del pittore Gustave Courbet; mentre l’intervento nella cappella del Castello di Ama (Aima, cioè “sangue”) sembra voler sottolineare la presenza dell’elemento religioso e allo stesso tempo stabilire la priorità della propria presenza.

Adam, come prototipo dell’umano, ci conduce ad una riflessione sulla coesistenza di una natura “grezza” d’origine e una “struttura” geometrica, ordinata.

Il gioco di “riconoscimento” e di smarrimento di fronte a concetti “noti”, ma allo stesso tempo stranianti, continua con i lavori basati sul colore e con le installazioni in cui la materia che le costituisce si va disfacendo progressivamente. Qui l’osservatore occidentale probabilmente ignorerà il significato particolare che il colore  rosso potrebbe avere per un indiano, ciò non toglie che esso sia in grado di risuonare nell’inconscio di entrambi. Kapoor afferma infatti che il rosso è quel colore che più di tutti richiama l’India, ma allo stesso tempo, più universalmente, è il colore della corporeità, della vitalità, un colore estremamente potente.

A proposito di Svayambh, invece, “Quando lo espose per la prima volta al Musée de Beaux Arts di Nantes il pubblico vi lesse la metafora di uno stupro.”[4] Qui il gioco sta nel “nascondere” il significato dell’opera (a cui solo uno spettatore dotato di cognizione dell’ambito religioso hindu può accedere) attraverso l’ermeticità del titolo; Svayambh è infatti il “Principio autogenerato”, l’Autoesistente, l’Essere assoluto (e qui il gioco intellettuale diventa duplice, lo Svayambh di Kapoor infatti, nel “darsi forma da sé” non fa altro che perdere parti di se stesso, “autodistruggendosi”).

Una cosa esiste nel mondo perché possiede una coerenza mitologica, psicologica e filosofica”, ed “è questo il momento in cui una cosa è veramente realizzata (That is when a thing is truly made)…[5]

"Svayambh", 2007

L’arte del “truly made” si ha solo nel momento in cui “il materiale e il non-materiale si toccano tangenzialmente[6].

È quando la materia crea il vuoto, la concavità crea la convessità, il dentro crea il fuori, il dritto crea il rovescio, il sopra crea il sotto (Void field, Untitled 2005, Upside Down Inside Out, Wave, Sky Mirror).

È qui che, secondo Anish Kapoor, si ha il “segno del vuoto” (the sign of emptiness). Non un vuoto come “assenza”, ma un vuoto come “possibilità di altro”, uno spazio in cui l’oggetto e l’osservatore, nel loro incontro, possano “espandere i limiti dello spazio disponibile[7]. Aggiungerei, anche, i limiti del senso disponibile.

"The tall tree and the eye", 2009, Royal Academy of London

Occorre forse a questo punto operare una distinzione tra “significato” e “senso”. Il significato è in un certo modo determinato dalla struttura stessa  dell’oggetto (signo – facere, produrre un segno) cioè dagli elementi che lo compongono, che rendono tale la sua struttura (come le lettere che compongono una parola). Il senso ha invece a che fare con il “sentire” (“percepire col corpo e con l’intelletto”)[8]; non solo, ha anche a che fare con la “direzione” di questo “sentire”. Il senso si ha quando trasformiamo questa struttura di segni in un qualcosa che per noi ha senso, cioè quando mettiamo in gioco, nell’osservazione dell’oggetto, il nostro contenuto mitologico, psicologico e filosofico. Si tratta di un “doppio- senso”, dall’oggetto all’osservatore e dall’osservatore di nuovo all’oggetto. Il senso si trova nell’incontro, nella relazione.

È nell’incontro che l’oggetto e la sua “mitologia latente” si “attivano”, attivando anche nello spettatore le “immagini” presenti nel proprio inconscio. Da questo punto d’incontro, si origina il senso, secondo un processo di proiezione – identificazione continua.

Ma è una relazione in cui alla fine si annullano le singolarità specifiche di oggetto e osservatore, è in quel punto d’incontro “neutro”, il segno del vuoto, nel processo “reverse, affirm, negate”.[9]

Ovvero ribaltamento, cambio di prospettiva, incontro con l’ “altro”, con ciò che non sono io;  affermazione delle rispettive singolarità al momento dell’incontro; infine “negazione”, ma come annullamento delle differenze, identificazione completa con l’altro da me: ecco il senso di Double mirror, i due specchi concavi che, posti l’uno di fronte l’altro, finiscono per non riflettere più nulla.

Ma ecco anche il processo di costruzione dell’identità, poiché il processo “reverse, affirm, negate” è un processo circolare, che ritorna, dopo la “negazione”, attraverso un nuovo “ribaltamento”, ad un nuovo “affirm”; l’affermazione, la creazione di nuovi sensi. Almeno tanti quanti gli “incontri” possibili tra exteriority and inward, tra ciò che esiste fuori di noi e la nostra interiorità.

"Cloudgate", 2004, Millenium Park, Chicago

[Galleria delle opere, saggi critici, interviste all’artista su http://www.anishkapoor.com/ ]


[1] Anish Kapoor in Anish Kapoor inghiottito da uno specchio, articolo di Francesca Paci, dal sito LaStampa.it, 30/09/2009

[2] Dal sito http://www.luxflux.net

[3] Anish Kapoor in John Tusa, dal sito http://www.anishkapoor.com/writing

[4] Anish Kapoor inghiottito da uno specchio

[5] Aperture e Visioni di Pier Luigi Tazzi

[6] Anish Kapoor: Making Emptiness by Homi K. Bhabha, dal sito http://www.anishkapoor.com/writing

7Ibidem

[8] Dizionario etimologico

[9] Anish Kapoor: Making Emptiness

Descizione:

Testo – Brahama sūtra o Vedānta sūtra di Bādarāyaṇa (primi secoli era cristiana)

Il Mīmāṁsā sūtra e Vedānta sūtra in origine costituiscono un unico testo

Le tre correnti principali del Vedānta sono:

–         Vedānta Advaita (“non-dualismo”) – codificatore Śaṅkarācārya

–          Viśiṣṭādvaita, o Dvaitādvaita o Bhedābheda (“monismo mitigato, o qualificato”) – codificatore Rāmānuja

–          Dvaita vedānta (“dualismo”) – codificatore Madhva

La Uttara Mīmāṁsā  (“ulteriore riflessione”) costituisce la parte spirituale e speculativa della rivelazione vedica, caratterizzata da una certa disorganicità, oscurità, e non di rado apparentemente contraddittoria.

È detta anche Brahama – Mīmāṁsā (“riflessione sul Brahama”) e Vedānta (“conclusione dei veda”), con riferimento alle Upaniṣad; si occupa di studiare la natura dell’Essere immutabile e dell’unica realtà spirituale.

La dottrina che vi si insegna è la sostanziale irrealtà del mondo fenomenico (maya), simile a quella dei sogni, di contro all’assoluta realtà del Brahaman.

La storia del pensiero Vedānta è in gran parte tracciata dal susseguirsi dei commenti al Brahama sūtra, ognuno dei quali polarizza una delle possibili angolazioni di lettura di questo monumento all’ambiguità, ponendosi a fondamento di dottrine e visioni del mondo, ciascuna fortemente caratterizzata e tra loro antagoniste.

La “visione” (o  darśana) del Vedānta, che vede nella conoscenza introspettiva (jňāna) lo strumento di salvezza, ha dominato fino ai nostri giorni il panorama religioso hindu, ispirando i principali interpreti  e gli ācārya (“maestri”) delle verità religiose, producendo ampi commentari dei testi che costituiscono le fonti principali del Vedānta, note come prasthānatraya (“triplice sistema”): le Upaniṣad, i Brahama  sūtra e la Bhagavad – gītā.

Le forme in cui la speculazione vedantica si articola vanno dal rigoroso non-dualismo di Śaṅkara, che non ammette distinzioni all’interno della realtà e tra il Sè (ātman) e l’Assoluto (Brahman); fino al pluralismo dello Dvaita vāda, che sostiene una serie di “dualismi” o di “distinzioni” che riguardano le tre fondamentali categorie della realtà (Dio, le anime, il mondo); passando attraverso una serie di posizioni più “sfumate” come lo Dvaitādvaita – vāda (Dualismo- e- non- dualismo), il Viśiṣṭādvaita vāda (Non-dualismo con distinzioni) e lo Śuddhādvaita vāda (Non dualismo “puro”).

Lord Brahma from a Sculptural Textbook Illustration of Lord Brahma based on a sculptural textbook of Sri Kashyapa Shilpa Shastram (1st Century A.D.)

Bibliografia di riferimento:

Raffaele Torella – Il pensiero dell’India: Un’introduzione , Roma, Carocci Editore, 2008

Stefano Piano–  Sanatana-dharma, Milano, Edizioni San Paolo, 2006

Glossario Sanscrito – a cura di Gruppo Kevala, Asram Vidya Edizioni, 1998

iscrizione

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